Come noto, una delle misure più discusse previste dal legislatore per far fronte al periodo emergenziale è stata l’introduzione del c.d. “blocco” dei licenziamenti operata dall’art. 46 del D.L. 18/2020 (convertito in legge con L. 27/2020), anche noto come “Decreto Cura Italia”.
In relazione a tale norma, uno dei nodi su cui si sono maggiormente interrogati sin da subito non solo la dottrina ma anche gli operatori economici, è stato quello attinente all’applicabilità o meno di tale divieto alle figure dirigenziali, pacificamente escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 3 della L. 604/1966 espressamente richiamato dalla norma del Decreto Cura Italia.
In un primo momento, la dottrina pressoché unanime aveva concluso per l’inapplicabilità del blocco alle figure dirigenziali sostenendo la chiarezza letterale della norma in questione che, come detto, sancisce il divieto di recedere dai rapporti di lavoro per “giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Successivamente, anche la giurisprudenza è intervenuta sul punto e, in particolare, il Tribunale di Roma si è pronunciato con due recenti ordinanze dai contenuti diametralmente opposti che hanno suscitato un certo scalpore.
Ma procediamo con ordine.
Inizialmente, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, aveva sancito l’applicabilità del divieto di licenziamento anche ai dirigenti, facendo leva, in primo luogo, sulla ratio sottesa all’introduzione della disposizione in esame che, ad avviso della Corte, sarebbe quella di “evitare in via provvisoria che le pressoché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro”. Secondo la Corte capitolina, anche i dirigenti meriterebbero di essere coperti da simile tutela, anche in considerazione del fatto che questi ultimi risultano addirittura più esposti al rischio di perdere il proprio posto di lavoro – stante la maggiore elasticità del principio di giustificatezza, sulla base del quale va verificata la legittimità del licenziamento degli stessi.
Il Tribunale, a ulteriore supporto della propria interpretazione, ha poi concluso asserendo che, qualora si escludessero le figure dirigenziali dall’ambito di applicazione del blocco dei licenziamenti, si creerebbe un’insanabile discrasia con il fatto che i dirigenti sono comunque “protetti” in caso di licenziamento collettivo.
Sin da subito, la pronuncia sopra descritta è stata accolta da molteplici critiche e perplessità, oltre che dal timore circa le profonde ripercussioni che potrebbe avere per quelle aziende che, sino a quel momento, avevano agito sulla base dell’interpretazione prevalente che, come detto, non riteneva applicabile il blocco ai profili dirigenziali.
In tale contesto, in data 19 aprile 2021, il Tribunale di Roma è intervenuto nuovamente sul tema, tramite un’ordinanza con la quale la Corte ha ribaltato integralmente le argomentazioni della precedente pronuncia, asserendo che “il dato letterale della norma, in uno con la filosofia che la sorregge, non consente di ritenere che la figura del dirigente possa essere ricompresa nel blocco”.
Infatti, il Tribunale ha innanzitutto rilevato che la tenuta costituzionale dell’art. 46 del D.L. 18/2020 si basa sul binomio tra il divieto di licenziamento e la possibilità di ricorrere più facilmente all’ammortizzatore sociale; binomio evidentemente non sussistente nel caso dei dirigenti, proprio in considerazione del fatto che gli stessi non sono ricompresi tra i beneficiari degli ammortizzatori sociali.
Ciò, secondo la Corte, porterebbe all’inevitabile conseguenza che “della categoria dei dirigenti dovrebbe necessariamente farsene carico il datore di lavoro, pur in presenza di motivi tali da configurare un’ipotesi di giustificatezza del recesso”. A parere del Tribunale di Roma, quindi, sussisterebbe un’insanabile incoerenza costituzionale tra l’estensione del blocco ai dirigenti e il principio di libertà di iniziativa economica.
Da ultimo, il Tribunale di Roma ha sconfessato altresì l’ulteriore argomentazione (sposata, peraltro, anche dalla medesima Corte nella pronuncia del 26 febbraio 2021) secondo la quale l’estensione del divieto di licenziamento ai dirigenti sarebbe giustificata anche dal fatto che sarebbe irragionevole escludere le figure dirigenziali dalla protezione dai licenziamenti individuali quando sono protette dal blocco dei licenziamenti ogniqualvolta rientrino nel perimetro di un licenziamento collettivo. Infatti, ad avviso della Corte, la diversità delle fattispecie è tale da giustificare una difformità di trattamento tra le due ipotesi.
In conclusione, a parere di chi scrive, l’iter argomentativo seguito dal foro capitolino nella più recente pronuncia dello scorso aprile (che ha escluso l’applicabilità del blocco dei licenziamenti alle figure dirigenziali) appare quello maggiormente condivisibile, risultando maggiormente coerente con il dato letterale della norma e con le altre disposizioni emanate nel corso del periodo emergenziale.
A ogni buon conto, è evidente come il repentino cambio di passo effettuato dalla Corte romana non fa altro che acuire la situazione di incertezza in cui le aziende versano da un anno a questa parte a causa della crisi pandemica. In questo modo, infatti, gli operatori economici non hanno nemmeno la possibilità di avere contezza di quelle che potrebbero essere le conseguenze in termini economici di un eventuale licenziamento di un dirigente.
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