Crescono a due cifre le ricerche made in Italy nei Balcani
Agenzie per il lavoro. Sgb Humangest si espande nei Paesi dove c’è una forte concentrazione di aziende italiane. A est si vedono i primi segnali di dinamismo, a partire dal turismo.
Fonte: Il Sole 24 Ore – Articolo di Cristina Casadei
«A Bucarest un operatore di call center guadagna circa 300 euro netti al mese. Ma se parla più di 2 lingue e ha particolari competenze può arrivare al doppio. Allontanandosi dalla capitale e arrivando là dove ci sono le fabbriche, lo stipendio medio di un operaio si aggira intorno a 450 euro netti al mese». A dirlo è l’amministratore delegato dell’agenzia per il lavoro Sgb Humangest, Gianluca Zelli, che ha stretto una partnership con il gruppo Heads Adriatic per espandersi nei Balcani. Al momento, la società di Pescara, che ha un giro d’affari di 180 milioni di euro (260 considerando anche la partnership), è già operativa con una rete di 25 uffici e 4 divisioni specializzate in Serbia, Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Albania, Montenegro e Macedonia del Nord. In Romania è invece presente in modo diretto dal 2007 ed è il quarto player di mercato.
L’agenzia fa ricerche per le aziende italiane che sono attive nell’area e per le multinazionali già clienti in Italia e che operano in questi paesi. «In Romania, così come nell’area balcanica, dove ci stiamo rafforzando, cresciamo a doppia cifra, tra il 15 e il 18%, in Italia tra il 5 e l’8%. A fine anno dovremo però verificare l’impatto della pandemia. Nei Balcani, comunque, ci sono segnali di ripresa, anche se timidi, che arrivano da diversi settori. Anche dal turismo, soprattutto in Croazia e Slovenia, mentre in Italia le ricerche sono completamente ferme», dice Zelli.
Nell’area balcanica i settori più attivi sono l’automotive che in questo momento è in forte contrazione, il tessile, l’it, il business process outsourcing. Se prendiamo la Romania, per esempio, operai, tecnici, ingegneri, softwaristi, project manager sono ricercatissimi, soprattutto da aziende italiane. Del resto, secondo i dati forniti dalla sede Ice di Bucarest, in gennaio di quest’anno, sono state registrate 78 aziende italiane, in febbraio 108, in marzo 42, in aprile 14. Numeri in forte calo rispetto al 2019 – quando mediamente erano quasi 4 le aziende italiane ad aprire ogni giorno – e che sembrano risentire dell’effetto Covid. L’Italia continua ad essere il principale paese investitore per numero di aziende registrate (20,97%), seguita da Germania (9,94%) e Turchia (6,81%).
L’area balcanica è interessante per molteplici motivi, ma certamente impone la gestione degli effetti collaterali delle retribuzioni. «Il primo è il fatto che il turn over è molto elevato e i lavoratori possono cambiare molto facilmente azienda. Del resto aumentare la retribuzione del 10% a un operaio significa fare un rilancio di meno di 50 euro. E se questa è una percentuale che il lavoratore prende in grande considerazione, è facilmente assorbibile dall’azienda». Soprattutto se italiana. «È un mercato, quello rumeno, così come in tutta l’area balcanica, molto diverso dal nostro, con punte di dinamismo che in Italia non abbiamo», spiega l’amministratore unico della società Gianluca Zelli. E non dipende soltanto da questo particolare momento congiunturale e dall’effetto Covid.
Per la società, che è agenzia per il lavoro a 360°, nei Balcani cambia però l’attività preponderante che non è la somministrazione ma la ricerca e selezione. «Abbiamo recentemente avviato una ricerca di oltre 200 tecnici per una società energetica e una di saldatori per una società dell’oil&gas che sono poi stati assunti direttamente», racconta Zelli. Non solo. Nelle assunzioni, in genere, non ci sono passaggi intermedi, attraverso, per esempio, contratti a termine. Fin da subito i contratti sono a tempo indeterminato. Almeno due sono i fattori che incidono su questo. Il primo è la flessibilità in uscita e un mercato del lavoro piuttosto dinamico, il secondo è invece la formazione. «Se in Italia la bilateralità ha portato alla creazione dei fondi per la formazione dei lavoratori, in questi paesi non c’è nulla di tutto ciò e sono quindi le aziende, una volta trovati i lavoratori, a doversi far carico dei percorsi di inserimento», dice Zelli. Quanto invece al punto di partenza dei candidati non c’è la differenza di un tempo, né in termini di produttività né di preparazione. «Le persone sono più preparate che in passato – spiega Zelli. Se poi prendiamo alcune professioni, come quelle sanitarie, il gap, con paesi come la Romania, quasi si annulla».
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