Il caso in questione ha visto al centro della vicenda un responsabile del personale, il quale è stato licenziato per aver dato una “pacca sul sedere” a una sua collega e per avere espresso commenti inappropriati su un’altra collega. Il lavoratore ha impugnato giudizialmente il licenziamento, sostenendo l’innocuità e la non maliziosità delle sue azioni. In un primo momento, il Tribunali di Palermo riteneva illegittimo il licenziamento, perché i fatti contestati venivano ritenuti in realtà insussistenti, sia sotto il profilo storico/materiale sia sotto il profilo giuridico, in ogni caso non rilevanti e non integranti una giusta causa di licenziamento.
Il Tribunale condannava quindi la Società datrice di lavoro a provvedere alla reintegrazione del lavoratore e a risarcirlo per il danno asseritamente patito.Tuttavia, la Corte d’Appello ribaltava la decisione del Giudice di prime cure, ritenendo il comportamento del dipendente inaccettabile poiché lesivo e irrispettoso della dignità della persona e della professionalità delle due lavoratrici. La Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte di Appello.
Nel caso in questione, il Giudice di primo grado aveva definito “generica” la contestazione disciplinare inviata al lavoratore e, pertanto, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento. Il datore di lavoro, infatti, deve contestare in modo tempestivo e preciso la condotta del dipendente, al fine di garantire il suo diritto di difesa qualora quest’ultimo ritenga infondate le ragioni del datore di lavoro. È fondamentale che la contestazione sia redatta con accuratezza, poiché eventuali errori od omissioni potrebbero rendere impugnabili gli eventuali provvedimenti disciplinari adottati successivamente.
Nei casi di molestie sessuali sul posto di lavoro, qualora il datore non voglia mettere la vittima al centro di ulteriori sgradite attenzioni, potrà se non altro descrivere in modo preciso i fatti, indicando almeno le circostanze di tempo e luogo delle molestie denunciate (Cass. 6889/2018).
Nel caso discusso in questo articolo, i requisiti richiesti dalla Legge per redigere una contestazione considerata efficace (tempestività, specificità e immutabilità) sono stati soddisfatti in quanto i fatti e le circostanze erano chiaramente delineati. Così, si è ritenuto che avessero una rilevanza decisiva nella compromissione del legame di fiducia, visto che il comportamento del dipendente ha perturbato l’assetto lavorativo, influenzando negativamente anche le dinamiche gerarchiche. La Suprema Corte ha accolto in pieno la tesi della Corte d’Appello sull’eclatante offensività delle condotte contestate perché “non rispettose della dignità della persona e della professionalità delle due lavoratrici, non avvezze a ricevere simili sgradite attenzioni che infatti avevano in loro suscitati imbarazzo e umiliazione, mentre erano intente a disimpegnare i compiti a loro affidati”.
La Cassazione ha sottolineato come fossero manifeste l’offensività e la gravità della condotta, evidenti nella volgarità dei gesti e delle espressioni verbali contestati al lavoratore. Questa gravità implica che, una volta venuto a conoscenza di tali azioni, il datore di lavoro abbia l’obbligo di intervenire in conformità all’articolo 2087 del Codice Civile, che prevede che l’imprenditore sia tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti. Assume ovviamente rilievo (in questo caso aggravante) anche la posizione lavorativa rivestita dal soggetto all’interno dell’organizzazione aziendale: nel caso di specie, infatti, si trattava proprio del soggetto che avrebbe dovuto vigilare sul rispetto del codice etico aziendale che, in questo contesto, può assumere particolare rilevanza in quanto redatto e adottato per garantire a tutti un ambiente di lavoro rispettoso, sicuro e professionale.
Il codice etico (da con confondersi con il codice disciplinare, focalizzato su precisi obblighi di condotta) enuncia regole sociali e morali alle quali sia i dipendenti che il datore di lavoro devono attenersi. L’ordinanza qui commentata ha evidenziato la legittimità del licenziamento fondati sulla violazione del codice etico, anche in assenza di una precisa definizione dell’illecito, per alcuni comportamenti chiaramente contrari all’etica (c.d. “minimo etico”). In tali casi, il dipendente dovrebbe comunque riconoscere il comportamento come inappropriato, rendendo superflua sia la precisa definizione dell’infrazione, sia l’affissione del codice etico nei contesti aziendali.
Non solo. I Giudici di legittimità hanno chiarito che, di fronte a tali comportamenti, non è necessario verificare l’abitualità/continuità della condotta o la percezione da parte delle vittime, né tanto meno rileva il fatto che la dipendente offesa non avesse sporto una denuncia penale. La condotta stessa, infatti, è foriera di un oggettivo disvalore sociale, trattandosi di un atteggiamento irrispettoso, capaci di minare la serenità dell’ambiente lavorativo e di generare turbamento.
Nonostante non sia obbligatorio, l’adozione di un codice etico in azienda è fortemente consigliata: non solo ribadisce le responsabilità etico-sociali di ognuno, ma contribuisce a rafforzare la reputazione aziendale e ridurre comportamenti opinabili.
Vuoi saperne di più?