Com’è noto, per periodo di comporto si intende il totale delle assenze per malattia effettuate da un lavoratore dipendente. Vi è un tetto massimo, previsto generalmente nei contratti collettivi di lavoro, superato il quale il lavoratore può essere licenziato per “superamento del periodo di comporto”.
Si tratta di una fattispecie autonoma di recesso, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa e giustificato motivo. L’avvenuto decorso del termine di comporto abilita difatti il datore di lavoro a recedere per tale solo fatto, vale a dire senza che siano necessarie la sussistenza e l’allegazione di ulteriori elementi integranti un giustificato motivo.
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è illegittimo nel momento in cui la malattia è stata causata o aggravata dalla nocività insita nelle modalità di esercizio delle mansioni o comunque esistente nell’ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro è responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminarne l’incidenza in adempimento dell’obbligo di protezione (Cass. 22 gennaio 2015 n. 1180; Cass. 18 aprile 2000 n. 5066). Ad esempio, è illegittimo il licenziamento quando lo stato patologico è stato causato da fatti integranti mobbing sul luogo di lavoro (Cass. 15 marzo 2016 n. 5053) o se il lavoratore è stato adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche (Cass. 4 luglio 2017 n. 16393). In tal caso le assenze del lavoratore per malattia determinata dal comportamento discriminatorio del datore di lavoro non sono computabili ai fini del superamento del periodo di comporto (Cass. 11 giugno 2013, n. 14643).
Recentemente la Cassazione, con pronuncia n. 11136 del 27 aprile 2023, si è espressa in materia analizzando il caso di un infortunio sul lavoro causato da un fatto imprevedibile.
Una lavoratrice, addetta al servizio di mensa presso un appalto di ristorazione, impugnava la sentenza con cui la Corte territoriale aveva respinto il ricorso proposto dalla medesima avverso il licenziamento per superamento del periodo di comporto, intimatole dalla datrice di lavoro. La dipendente, a fondamento della sua domanda, deduceva che tra le assenze da computare al fine della conservazione del posto non dovevano essere considerate quelle conseguenti all’infortunio occorsole a causa dello scoppio di una vetrinetta termica di proprietà della committente. La Corte d’Appello, essendo emersa l’assoluta imprevedibilità dell’evento alla luce del grado di diligenza esigibile da parte del datore di lavoro, rigettava il ricorso e confermava la legittimità del recesso.
La Suprema Corte, ribadendo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha sottolineato che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul posto di lavoro o malattia professionale sono riconducibili alla nozione di infortunio o malattia regolata dall’art. 2110 c.c. e sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro.
È stato ricordato, altresì, che in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, la responsabilità del datore di lavoro, di natura contrattuale e non oggettiva, va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti da conoscenze tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso causale tra l’una e l’altra. Solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Inoltre, l’unico caso in cui le assenze del lavoratore, imputabili a malattia professionale, non devono essere conteggiate nel periodo di comporto è quello in cui detta malattia sia riconducibile ad una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (Cass. 27 febbraio 2019 n. 5749).
All’uopo, è necessario fare un’ulteriore precisazione: se il danno provocato al lavoratore da cose che il datore di lavoro aveva in custodia, sussiste a carico di quest’ultimo una presunzione di colpa ai sensi del combinato disposto degli artt. 2051 e 2087 c.c., superabile solo, per l’appunto, con la prova dell’adozione delle misure antinfortunistiche e della natura imprevedibile del danno.
Nel caso particolare affrontato dalla Cassazione, il giudice di merito superava la presunzione di colpa a carico del datore di lavoro, dovuta dalla custodia che quest’ultimo esercitava sulla vetrinetta: veniva accertato, difatti, che l’evento era imprevedibile vista la diligenza esigibile in base alle norme tecniche applicabili al tempo dell’accaduto.
Alla luce di tali premesse, la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice e ha confermato la legittimità del recesso, a fronte della computabilità delle assenze per infortunio ai fini del comporto.
Vuoi saperne di più?